lunedì 29 giugno 2009

Violati i principi democratici: colpo di stato in Honduras




HONDURAS

Dalle 17.36 italiane il Presidente Zelaya è in diretta telefonica su Telesur dal Costarica.
LE PARTI PRINCIPALI:
“E’ un complotto delle oligarchie delle forze armate che mi hanno tradito per lasciare il popolo come sta e fermare un processo democratico partecipativo”.
“Hanno sparato, rotto il portone di casa con le baionette, un sequestro brutale”.
“Mi hanno portato alla Forza Aerea, salito su un aereo e portatomi in Costarica”.
“Se gli Stati Uniti non sono dietro il golpe questi non resisteranno neanche 48 ore”.
“Domani parteciperò a Managua a una riunione di tutti i presidenti centroamericani contro il Golpe”.
“Mi vogliono rovesciare perché voglio la democrazia partecipativa”.
“Sento molta pena per il popolo nobile e pacifico dell’Honduras. I golpisti continuano con metodi del secolo passato”.
“Chiedo a tutte le forze progressiste del paese, alla chiesa cattolica che si pronuncino per lasciar parlare il popolo, adesso si sente solo la voce di un gruppo di militari. Faccio un appello al dialogo”.
“Un governo usurpatore non può essere riconosciuto da nessuno”.
“Anche l’ALBA si riunisce domani a Managua”.
“Non c’è maniera di comunicare con il popolo dell’Honduras perché i golpisti hanno interrotto tutti i mezzi di comunicazione”.
“Chiamo il popolo dell’Honduras alla resistenza non violenta al golpe”.
“Un gruppo delle Forze Armate che ha realizzato il golpe è manipolato dall’élite economica che ha il controllo sul parlamento”.
TEGUCIGALPA - Colpo di Stato in Honduras. Il presidente Manuel Zelaya è stato trasferito con la forza in Costa Rica; sua moglie è in un rifugio segreto sulle montagne. Arrestati altri otto ministri, tra cui il capo del dicastero degli Esteri Patricia Rodas allontanata oltre frontiera. "Sequestrati" anche gli ambasciatori di Venezuela, Cuba - poi rilasciato - e Nicaragua nella capitale Tegucigalpa. La città in cui oggi si doveva tenere il referendum per avrebbe permesso al presidente di candidarsi per un secondo mandato, è invasa dai corazzati militari, le comunicazioni con il paese sono quasi impossibili e le trasmissioni radio e tv sono state sospese. Pietre contro i soldati. Un cordone di soldati è schierato attorno al palazzo presidenziale dove un centinaio di sostenitori del presidente con indosso la t-shirt "sì al referendum", manifestano gettando pietre sui soldati e gridando "traditori, traditori". I giudici ispiratori dell'intervento militare. "Siamo stati noi - ammettono i giudici della Corte Suprema di Tegucigalpa - ad ordinare ai militari di agire perchè Zelaya aveva tentato di violare la legge facendo votare un referendum per autorizzare la sua rielezione". Presidente ad interim è stato nominato il presidente del parlamento Roberto Micheletti in attesa delle nuove elezioni indette il prossimo 29 novembre. Zelaya: "Hanno mitragliato la mia casa". Drammatico il resonto del golpe rilasciato dal presidente Zelaya giunto all'aeroporto di San José in Costa Rica: "Quello che ho subito stamane è stato un sequestro compiuto dai militari. Hanno mitragliato la mia casa. La mia guardia d'onore ha opposto resistenza per almeno venti minuti, sono stato svegliato dagli spari e dalle urla. Sono stato portato via in pigiama", ha raccontato Zelaya. I militari, ha aggiunto, sono entrati "sparando, e ho dovuto proteggermi dai colpi: mi hanno minacciato e puntato contro le armi". Zelaya ha concluso il drammatico resoconto con un appello alla comunità internazionale: "Io non mi sono dimesso. Nessuno riconosca gli usurpatori. Difendete l'Honduras".




Chavez: "Pronto ad intervenire con le armi". Il presidente venezuelano Hugo Chavez, vicino politcamente a Zelaya, ha annunciato di aver messo in stato di massima allerta le forze armate e ha minacciato un intervento militare in Honduras se il suo ambasciatore a Tegucigalpa non sarà rilasciato. "Dietro i soldati golpisti si nascondono la borghesia honduregna - ha detto Chavez - i ricchi che hanno trasformato l'Honduras in una repubblica delle banane, in una base politica, militare e terroristica dell'impero nordamericano", ha aggiunto. "Lancio un appello al presidente degli Stati Uniti perché condanni come noi questa aggressione". Obama: "Sono preoccupato". E il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, ha espresso "profonda preoccupazione" per l'arresto del presidente dell'Honduras. "Chiedo a tutti gli attori politici e sociali in Honduras di rispettare lo stato di diritto" ha detto il presidente Usa. Anche il segretario di Stato americano ha condannato senza remore il golpe. "Sono stati violati i principi democratici" ha detto Hillary Clinton e l'ambasciatore degli Stati Uniti a Tegucigalpa Hugo Llorens, ha ripetuto convinto che "l'unico presidente che gli Stati Uniti riconoscono nel paese è Zelaya". La Casa Bianca ha respinto però con forza l'accusa di aver avutoun ruolo nel golpe: "Non c'è stato alcun coinvolgimento statunitense in quest'azione", ha riferito un funzionario della presidenza Usa. Scontro Zelaya-esercito. La tensione a Tegucigalpa stava montando da giorni dopo che il presidente Zelaya aveva annunciato un progetto di modifica della Costituzione, sfidando così il potere dell'esercito e del Congresso. Zelaya puntava a cambiare la carta fondamentale per far sì che potesse essere rieletto per più di un singolo mandato di 4 anni. In un'intervista rilasciata qualche giorno fa al quotidiano spagnolo El Pais, Zelaya aveva sostenuto che "un altro tentativo di sottrargli il potere" era stato recentemente respinto dal suo governo solo dopo che gli Stati Uniti si erano rifiutati di sostenere il golpe.

sabato 27 giugno 2009

Settimana del Venezuela a Milano


Milano, si apre il 29 Giugno 2009 con un discorso iniziale del dott. Vidal Falcon console generale della Repubblica Bolivariana, la settimana del Venezuela. Nel'ambito della fiera latinoamericana, questo sarà un importante appuntamento per far conoscere la cultura e la vita di un paese e di un popolo al quale, da quando è governato dal Presidente Chavez non viene dato il giusto riconoscimento. Questo mancato riconoscimento è frutto di pregiudizi e incapacità di comprendere dinamiche sociali che stanno modificando gli assetti geopolitici di tutto il Sud America.
Questi cambiamenti hanno coinvolto paesi Sud Americani come Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Honduras ed ultimamente stanno coinvolgendo il Perù che, con rivendicazioni da parte dei nativi ispirati da questo spirito nuovo che deve molto al presidente Venezuelano, combattono contro lo sfruttamento del territorio ad opera delle multinazionali straniere.
Se un paese perde le sue radici culturali, la sua storia, la sua arte, la sua lingua diventa incapace di creare, e svanisce. Questo è quello che stava succedendo nella Repubblica del Venezuela prima del avvento di Chavez, governata da un gruppo di neoliberalisti borghesi al soldo delle grandi potenze e multinazionali mondiali.






“Settimana del Venezuela”

Artigianato, Arte, Turismo, Cocktail di Ron e tanti assaggi della cultura venezuelana durante tutta la settimana. Al Padiglione delle Nazioni si svolgerà la settimana dedicata al Venezuela con la collaborazione del Consolato Generale del Venezuela

Programma

Artigianato.
Con la collaborazione delle associazioni venezuelane “Ventanas de Venezuela” e “Asociación Bolivariana de Venezuela en Italia” nello spazio dello stand si esporranno dei prodotti tipici venezuelani quali, bambole realizzate artigianalmente, amache, oggetti vari realizzati in argilla, in legno, in bronzo o rame.

Arte.
Esposizione di opere di artisti venezuelani e la Proiezione in loop delle opere audio-visive.
Turismo Proiezione di video turistici promozionali del Venezuela e distribuzione di materiale promozionale e informativo ai visitatori. Gastronomia e Musica (01, 02 e 05 luglio)Verrà offerto ai visitatori un aperitivo venezuelano. Il catering sarà a cura del Signor Antonio Garces, chef del Venezuela.

Cocktail Pampero.
Il Rum Pampero sarà presente l’1 il 2 e il 5 luglio con il proposito di far conoscere oltre che con la degustazione, anche con la proiezione di un video, che nel processo di produzione sono presenti la
tradizione e la storia del Venezuela.




VENEZUELA
Venezuela, paese dai mille volti e terra di contrasti che suscita, con la sua incredibile varietà di paesaggi, emozioni sempre diverse. Esteso e vario, il territorio venezuelano riserva paesaggi e ambienti unici al mondo: la solare costa caraibica fronteggiata dagli arcipelaghi delle Piccole Antille, la regione Guayano-amazzonica con le spettacolari sagome dei tepuyes, l’immensa foresta amazzonica, maestosi fiumi e cascate, le praterie dei llanos che si perdono all’infinito, le valli andine.
A nord, a circa 130 km da Caracas, sorge l’arcipelago di Los Roques, con i suoi 350 isolotti immersi nella spianata di un mare che sfuma dal blu al turchese al verde smeraldo, un’oasi dalla bellezza selvaggia e primitiva con candide spiagge di sabbia madreporica, acque tiepide con trasparenze di cristallo, reef corallini dove nidificano colonie di pellicani, aironi bianchi e gabbiani reali. L’intero arcipelago è Parco Nazionale dal 1972 e solo Gran Roque, l’isola più grande, è abitata: una manciata di casette di pescatori dipinte con i colori solari dei tropici, un paio di bar e una piccola pista di atterraggio. Per i subacquei è un paradiso incontaminato che offre delle meravigliose immersioni in parete o su suggestivi pinnacoli ricchi di variopinte gorgonie e corallo cervello attorno ai quali ruotano coloratissimi pesci pappagallo, barracuda, squali, mante e carangidi. La vita comincia presto, con abbondanti colazioni in posada, per proseguire con le escursioni in barca nelle isole vicine. Grazie a queste giornate di totale relax si avrà la possibilità di prendere il sole, fare dello snorkelling lungo la barriera corallina o provare l’ebbrezza del windsurf. Dopo il rientro a Gran Roque, è possibile passeggiare lungo le viuzze dell’isola dove non ci sono automobili né strade asfaltate per lo shopping nei negozietti ricchi di souvenir. La sera spesso vengono organizzate feste di paese in cui tutti si lanciano nelle danze o più semplicemente si può assaggiare il rum venezuelano nei localini disseminati lungo la via centrale dell’isola.

mercoledì 17 giugno 2009

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE !!! ALBERTO PIZANGO CHOTA

Perù:150 indios uccisi perché in rivolta contro le estrazioni di petrolio nella Foresta amazzonica.
Dopo giorni di sanguinosi scontri tra indios dell'Amazzonia e militari, il Parlamento del Perù ha sospeso per 90 giorni la cosidetta "legge sulla foresta", uno dei dieci decreti che favoriscono lo sfruttamento delle risorse naturali nell'area. Le leggi sono state la causa dei violenti scontri di venerdì e sabato a Bagua (nell'Amazzonia) tra gruppi di indigeni e la polizia di Lima, scontri nei quali sono morte molte persone. Gli indios sostengono che le leggi promosse dal presidente Alan Garcia permettono lo sfruttamento selvaggio delle materie prime della foresta, in settori quali gli idrocarburi (petrolio e gas naturale), il legname e le risorse minerarie.Il leader della principale organizzazione di indios del Perù, Alberto Pizango, si e' rifugiato all'ambasciata del Nicaragua a Lima. Pizango, dell'Associazione interetnica della giungla peruviana (Aidesep), è ricercato dopo gli scontri.

Alberto Pizango ha il suo nemico proprio in casa, è il gruppo Romero, gigante dell' agrobusiness in Perù, che è riuscito a farsi assegnare dal governo 30.000 ettari di foresta vergine nel territorio della sua parrocchia per disboscare e poi sostituire gli alberi con piante oleose destinate alla produzione di biodiesel. «Una sorta di prova generale verso la distruzione dell' Amazzonia peruviana, per questo siamo stati i primi a muoverci». «Il mondo ha scoperto il Perù in questi giorni, con la strage, ma i nostri fiumi sono già inquinati di petrolio, i nostri bambini hanno piombo e cadmio nel sangue e ogni giorno vedo gli animali morire e fuggire dalla selva in distruzione». Io non credo a una parola di quel che il governo ha raccontato sulla strage di Cagua. «Controllano tutto, i media e le coscienze. Gli indios sono un movimento pacifico, non hanno armi da fuoco e si sono soltanto difesi dalla polizia. Dicono che Alberto Pizango (leader della rivolta) sia sostenuto dalla Bolivia, così buttano tutto in politica, per dire che dietro gli indios ci sono Morales e Chávez». E i poliziotti sgozzati dai manifestanti? «Non è vero niente. I nostri si sono solo difesi. Tutte fandonie, una scusa per imporre all' Amazzonia peruviana lo stato di emergenza e il coprifuoco». Alla storia dello sviluppo, dei posti di lavoro nella foresta che nascerebbero con i nuovi investimenti non credenessuno: «Non si è mai visto. Le regioni dove operano le multinazionali del petrolio e del legno sono quelle con i tassi più alti di miseria, malattie e emarginazione. Il governo sta lavorando d' accordo con gli Stati Uniti per cambiare le nostre leggi, svuotare le norme della Costituzione che parlano di protezione della foresta e dei popoli indigeni».


"L' America e l' Europa sono responsabili del delitto di neocolonialismo, la tragedia di questa gente."

Il conflitto, o almeno questa fase del conflitto, è cominciato il 9 aprile quando le tribù indigene si sono ribellate contro una decina di decreti legislativi che García, forte dei poteri speciali che si era fatto concedere dal Congresso, aveva emanato l'anno scorso in attuazione del Tlc, il trattato di libero commercio, «regalato» agli inizi del 2008 da George W. Bush come tangibile riconoscimento all'«amico» Alan (rimasto l'unico, con il colombiano Uribe, nel Cono sud) lanciatosi in una forsennata politica di apertura neo-liberista. Fra quei decreti ce n'era uno, detto Ley Forestal, che voleva mettere «ordine» nella proprietà delle terre e nelle concessioni dei diritti di sfruttamento delle loro risorse. In realtà, dicevano gli indigeni e qualsiasi persona dotata di un minimo di onestà intellettuale, quella e altre misure erano «incostituzionali» e dovevano servire a spianare la strada alle compagnie straniere per l'acquisto e lo sfruttamento delle terre appartenenti allo stato e alle comunità indigene: in palio colossali profitti su petrolio e gas, oro e rame, il legname, l'agricoltura su larga scala. Con i prevedibili - e già drammaticamente tangibili - danni per la vita delle popolazioni originarie (che in Perú costituiscono circa la metà dei 28 milioni di abitanti) e della decantata biodiversità dell'Amazzonia. In Perú ci sono 65 milioni di ettari di selve, di cui 18 milioni sono in regime di protezione, 45 milioni destinati alla produzione e altri 2 milioni alle riserve. Il decreto in questione, ha detto il deputato Roger Nayar Kokally del Bloque popular, «toglie i 45 milioni di selve destinati alla produzione dal patrimonio forestale nazionale». Cioè diventano «vendibili». A chi è facile immaginare. Lo stesso García, che nella campagna elettorale del 2006 sosteneva con la sua fluente retorica la necessità di guardarsi dai «potenti della terra, delle banche e del denaro che storicamente hanno schiacciato i diritti del popolo», dopo il suo secondo insediamento nella Casa de Pizarro sulla plaza de Armas di Lima ha cambiato radicalmente discorso: bisogna aprire agli investimenti stranieri, a qualsiasi prezzo, per creare ricchezza e poter poi distribuire qualche briciola a quel 50% di peruviani che vivono sono la soglia della povertà. La fallimentare teoria del «trickle down» che tanto piace ai fautori del neo-liberismo. Il Tlc con gli Usa (altri ne sono stati firmati con la Cina, il Giappone e la Corea del sud) se ha aperto le porte del mercato Usa all'entrata senza tariffe doganali dei prodotti peruviani, obbliga il Perú a eliminare i suoi dazi sul 75% dei prodotti industriali e di consumo e eliminare qualsiasi ostacolo all'importazione di prodotti agricoli statunitensi. Quando il 14 dicembre 2007 Bush firmò il Tlc, García disse che «era un gran giorno per il Perú» e che George Dabliu era «un vero alleato e amico del popolo peruviano».
Un discredito accentuatosi ancora con lo scoppio della crisi globale. Questa può essere - oltre alla psicolabilità crescente di García, di cui tutti parlano a Lima - una delle ragioni per cui ha deciso di scatenare esercito e polizia per stroncare la protesta (come fece nell'86 con massacro di 400 detenuti nel carcere di Lurigancho). Il movimento indigeno, finora, era stato pacifico anche se sempre più duro. Tagli di strade e di fiumi, occupazione dei pozzi petroliferi e di terre, sporadici scontri. Continuavano a chiedere l'annullamento dei decreti, il riconoscimento dei loro diritti storici sulle terre comunitarie (di cui, ovviamente, non possiedono i titoli di proprietà individuale), il diritto all'acqua prima che quello del petrolio e del rame, il diritto alla vita. Chiedevano il dialogo con il governo centrale. Ma nessuno li ascoltava. Così a metà maggio si sono dichiarati «en insurgengia» e hanno indurito la protesta. Miguel Palacin Quispe, leader della Caoi, Coordinadora andina de organizaciones indígenas, e Alberto Pizango, leader dell'Aidesep, Asociación interétnica del desarrollo de la selva peruana, hanno proclamato una «giornata nazionale di lotta indigena» per domenica 3 giugno, poi rinviata al 7 luglio per vedere se i negoziati col governo e il dibattito annunciato al Congresso dessero qualche risultato. Il 4 giugno l'ultimo schiaffo: la decisione del Congresso di rinviare il dibattito. García ordinava la repressione. Ora contro Pizango è stato spiccato ordine di cattura anche se il 5 giugno era a Lima e non a Bagua. Però il premier, Yehuda Simon, un passato di sinistra in Izquierda unida e nella Commissione per i diritti umani, 8 anni di carcere per contiguità con il «terrorismo» dell'Mrta, l'aveva detto fin da maggio: «Se ci saranno atti di violenza, responsabili non saranno la polizia o i soldati, e neanche i nativi: solo il signor Pizango e quelli che gli stanno dietro». Ieri ha parlato di «un complotto contro i peruviani». Una storia già letta.